Il 14/6/2007 ricorre il 40° anniversario della morte prematura di don Giuseppe Debernardis, Parroco dell’Addolorata per 6 anni (ultimo parroco anche di Porta Milano, divenuta parrocchia nel settembre del 1967).
Assunse la guida della Parrocchia a trentanove anni con il difficile compito di sostituire don Giuseppe Palena, parroco per 35 anni, molto amato e venerato da tutti come uomo di carità. In più (siamo nel ’61) stava avviandosi nel Paese un periodo nuovo (il boom economico, l’immigrazione dal sud, il Concilio Ecumenico ormai alle porte, inizio di un clima di secolarizzazione,…) che interpellava anche la Chiesa e la sua capacità di adeguare linguaggi e strumenti.
Con il giovane viceparroco, don Gigi Gavazza, (e dal ’66 don Spriano) puntò sui giovani (con il rilancio dell’Oratorio e la squadra di calcio: l’Astor); sulla centralità e solennità delle celebrazioni liturgiche (ricordo le novene dell’Addolorata, e la ricerca della perfezione nelle celebrazioni –quante prove! perché desiderava far sentire la bellezza e la gioia della liturgia); sull’attenzione ai malati (l’Oftal e Lourdes diventarono familiari a molti e soprattutto ai giovani).
Parlare di don Giuseppe (il Rettore: questo il titolo dei parroci dell’Addolorata) non solo ci riporta indietro di quarant’anni, ma in una società e in una Chiesa dell’altro secolo: è in quegli anni che cambiarono e maturarono molte cose che, nel bene e nel male, influenzeranno 20 o 30 anni di storia. E di quel periodo egli fu protagonista per la saldezza dei principi e degli insegnamenti. Rigido nell’impostazione ma con un cuore grande che si preoccupava della sua gente e viveva in mezzo ad essa. Volle continuare a insegnare religione alla Media Hugues per mantenere il contatto con gli adolescenti e le loro famiglie e dare il segno della presenza della parrocchia fra gli studenti. Fece della Parrocchia un momento di incontro e di aggregazione per tutti: realizzò una struttura accogliente per il tempo libero degli adulti con un piccolo bar e il biliardo in alcuni locali dell’oratorio; e ridiede vitalità al Circolo Pio X con attività che ricordavano i periodi brillanti del passato.
Negli anni della sua guida modernizzò il riscaldamento della Chiesa, ed essendo persona con buon gusto estetico e artistico acquistò tre belle poltrone per i celebranti da usare nelle solennità, e fece costruire il primo altare rivolto al popolo (secondo la nuova liturgia) con richiami allo stile dell’edificio.
Per le sue convinzioni quale insegnante di morale venne etichettato come rappresentante di posizioni tradizionaliste rispetto a idee più accattivanti e aperte. Temeva che proposte teologiche più innovative sviassero la serietà dell’impegno dei giovani più preparati e fu inflessibile nel chiedere loro un forte legame alla parrocchia e alle sue attività prima di quello, pur importante, a livello diocesano. Era, se si vuole, un eccesso d’amore che in alcuni casi si dimostrò azzeccato per il corso che presero gli eventi negli anni successivi e con l’adesione di alcuni a ideologie marxiste.
Nonostante questa etichetta fu zelante e entusiasta sia nell’applicazione della riforma liturgica che nel portare a conoscenza i documenti conciliari. Il suo atteggiamento era di accogliere tutte queste innovazioni come aggiornamento e ammodernamento e non rottura con il passato (non tutto sbagliato e da buttare). Ricordo anche, che in occasione di una veglia del giovedì santo, in chiesa, fece ascoltare una famosa omelia di don Mazzolari: “Nostro fratello Giuda”; questo dimostra che insieme alla fermezza dei principi possedeva l’apertura alle novità positive (Mazzolari rappresentava posizioni di “avanguardia” per il suo pacifismo e per l’aver subito richiami e ammonimenti da parte dell’autorità ecclesiastica).
Più volte disse che la Parrocchia era la sua famiglia e quella famiglia coltivò sempre con passione.
Il saluto dei giovani al suo funerale affermava: “riempiremo il vuoto lasciato dalle sua assenza con gli ideali che ci ha tracciato e che l’hanno assillata anche sul letto della sua malattia”; forse è una promessa che abbiamo a volte disatteso o dimenticato, ma l’insegnamento era radicato e, grazie anche ai suoi successori, abbiamo cercato di realizzarla (chi nella famiglia, chi nel lavoro, chi nella politica, chi nella carità). E dopo 40 anni tutta la comunità parrocchiale dell’Addolorata La vuole ricordare e ringraziare come pastore che si è speso per le persone a lui affidate.
Assunse la guida della Parrocchia a trentanove anni con il difficile compito di sostituire don Giuseppe Palena, parroco per 35 anni, molto amato e venerato da tutti come uomo di carità. In più (siamo nel ’61) stava avviandosi nel Paese un periodo nuovo (il boom economico, l’immigrazione dal sud, il Concilio Ecumenico ormai alle porte, inizio di un clima di secolarizzazione,…) che interpellava anche la Chiesa e la sua capacità di adeguare linguaggi e strumenti.
Con il giovane viceparroco, don Gigi Gavazza, (e dal ’66 don Spriano) puntò sui giovani (con il rilancio dell’Oratorio e la squadra di calcio: l’Astor); sulla centralità e solennità delle celebrazioni liturgiche (ricordo le novene dell’Addolorata, e la ricerca della perfezione nelle celebrazioni –quante prove! perché desiderava far sentire la bellezza e la gioia della liturgia); sull’attenzione ai malati (l’Oftal e Lourdes diventarono familiari a molti e soprattutto ai giovani).
Parlare di don Giuseppe (il Rettore: questo il titolo dei parroci dell’Addolorata) non solo ci riporta indietro di quarant’anni, ma in una società e in una Chiesa dell’altro secolo: è in quegli anni che cambiarono e maturarono molte cose che, nel bene e nel male, influenzeranno 20 o 30 anni di storia. E di quel periodo egli fu protagonista per la saldezza dei principi e degli insegnamenti. Rigido nell’impostazione ma con un cuore grande che si preoccupava della sua gente e viveva in mezzo ad essa. Volle continuare a insegnare religione alla Media Hugues per mantenere il contatto con gli adolescenti e le loro famiglie e dare il segno della presenza della parrocchia fra gli studenti. Fece della Parrocchia un momento di incontro e di aggregazione per tutti: realizzò una struttura accogliente per il tempo libero degli adulti con un piccolo bar e il biliardo in alcuni locali dell’oratorio; e ridiede vitalità al Circolo Pio X con attività che ricordavano i periodi brillanti del passato.
Negli anni della sua guida modernizzò il riscaldamento della Chiesa, ed essendo persona con buon gusto estetico e artistico acquistò tre belle poltrone per i celebranti da usare nelle solennità, e fece costruire il primo altare rivolto al popolo (secondo la nuova liturgia) con richiami allo stile dell’edificio.
Per le sue convinzioni quale insegnante di morale venne etichettato come rappresentante di posizioni tradizionaliste rispetto a idee più accattivanti e aperte. Temeva che proposte teologiche più innovative sviassero la serietà dell’impegno dei giovani più preparati e fu inflessibile nel chiedere loro un forte legame alla parrocchia e alle sue attività prima di quello, pur importante, a livello diocesano. Era, se si vuole, un eccesso d’amore che in alcuni casi si dimostrò azzeccato per il corso che presero gli eventi negli anni successivi e con l’adesione di alcuni a ideologie marxiste.
Nonostante questa etichetta fu zelante e entusiasta sia nell’applicazione della riforma liturgica che nel portare a conoscenza i documenti conciliari. Il suo atteggiamento era di accogliere tutte queste innovazioni come aggiornamento e ammodernamento e non rottura con il passato (non tutto sbagliato e da buttare). Ricordo anche, che in occasione di una veglia del giovedì santo, in chiesa, fece ascoltare una famosa omelia di don Mazzolari: “Nostro fratello Giuda”; questo dimostra che insieme alla fermezza dei principi possedeva l’apertura alle novità positive (Mazzolari rappresentava posizioni di “avanguardia” per il suo pacifismo e per l’aver subito richiami e ammonimenti da parte dell’autorità ecclesiastica).
Più volte disse che la Parrocchia era la sua famiglia e quella famiglia coltivò sempre con passione.
Il saluto dei giovani al suo funerale affermava: “riempiremo il vuoto lasciato dalle sua assenza con gli ideali che ci ha tracciato e che l’hanno assillata anche sul letto della sua malattia”; forse è una promessa che abbiamo a volte disatteso o dimenticato, ma l’insegnamento era radicato e, grazie anche ai suoi successori, abbiamo cercato di realizzarla (chi nella famiglia, chi nel lavoro, chi nella politica, chi nella carità). E dopo 40 anni tutta la comunità parrocchiale dell’Addolorata La vuole ricordare e ringraziare come pastore che si è speso per le persone a lui affidate.
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